A bassa voce di Maël Bertotto

“E non lascio lettere, niente rumore.
Caparezza – La scelta
Amo il mio silenzio e non comprendi quanto”
Questa è la storia di un tipo di silenzio. Non del silenzio indifferente. Non del silenzio omertoso. Non del silenzio accondiscendente. Questa è la storia del silenzio che sa ascoltare.
Fin da quando era bambina, tutti attorno a lei si preoccupavano per
quello che sarebbe stato il suo futuro. Dal momento esatto in cui era
venuta al mondo infatti, i genitori avevano immediatamente capito che la
figlia avrebbe dovuto compiere un arduo percorso per inserirsi nel loro
mondo: se tutti i nascituri lanciavano acutissime grida per salutare la
nuova casa che li accoglieva, la piccola Lia, con grande apprensione da
parte dei dottori e dei genitori,
emise un suono impercettibile, pari ad un sussurro.
La tradizione voleva che nel piccolo borgo di Sciaut, appena un nuovo nato imparava a parlare, doveva essere iscritto all’albo cittadino per poter partecipare, una volta compiuti i diciotto anni, alla competizione annuale di ‘’Sciaut or out!” , utilizzata per determinare chi sarebbe stato il cittadino con l’urlo più forte della città. Era considerato l’evento per eccellenza della città, e la maggior parte delle famiglie lavorava tutto l’anno per poter vedere qualche parente sul podio. Il record fu conquistato anni addietro agli avvenimenti narrati dal figlio più piccolo della famiglia Dagri, che raggiunse ben i 120 decibel, pari al suono delle sirene delle auto da polizia della città. Il piccolo passò alla storia: la maggior parte dei giurati, seppur abituati al rumore, fu costretta a casa per qualche giorno per riprendersi dal dolore, e si decise di erigere una statua al centro della piazza principale in suo onore.
Da quell’anno, ogni famiglia, presa dal più forte spirito di competizione, allenò i propri figli fin dalla nascita per poter finalmente battere il record del piccolo Dagri. Oltre che a conquistare tutta la stima (o l’invidia) dei compaesani e vincere un’ingente somma di denaro, a chiunque avesse battuto il record sarebbe stato permesso di assistere e partecipare ad un dibattito tra tutti i vincitori delle varie edizioni della competizione, il che in genere era riservato solo ai più grandi urlatori della città. Rosa e Mauro agognavano da tutta la vita di potervi partecipare, ma con la nuova arrivata fin da subito le loro speranze si dimezzarono: la piccola non dava segni di poter gridare come tutti gli altri bambini, mensilmente le maestre li chiamavano per continui colloqui per parlare degli strani atteggiamenti della bimba. "È da 25 anni che facciamo questo lavoro, e ci credano signori, mai nessun bambino ha mai gridato sotto gli 80 decibel. Vostra figlia è un caso perso: nonostante i mignoli contro gli spigoli dell’aula, le trecce strette dalle robuste braccia della signora Anna, i pizzicotti dei compagni, vostra figlia non grida. A questo punto vi consigliamo caldamente di farla vedere da un dottore."
Così per la bambina iniziarono anche le visite da diversi specialisti, ma nessuno riuscì a stimolare alcuno tipo di grido da parte di Lia. I genitori, disperati, inventarono ogni tipo di stratagemma per poter almeno farla arrivare penultima classificata. Al momento della buona notte, ad esempio, dopo che la madre finiva di raccontarle una favola (rigorosamente horror) e aver spento la luce, il padre spuntava da sotto il letto imitando i mostri narrati dalla moglie, sperando di suscitare grida di terrore nella figlia, ma questo non faceva altro che provocare dei timidi risolini in Lia, che entusiasta del racconto e del nuovo gioco, con grande sconcerto dei genitori, imponeva loro orari disumani.
Da un punto di vista esterno al piccolo borgo, quello di Lia
non era un grande problema : la piccola non era muta, anzi aveva anche
una bella parlantina se stimolata, e a scuola eccelleva (a parte nelle
competizioni di grida). Il guaio era che tra tutte le urla, nessuno
riusciva a sentirla, così era costretta ad utilizzare un megafono ogni
volta che volesse parlare. In più, per la comunità di Sciaut, seppur
volesse molto bene alla bambina, il fatto di non saper gridare era
gravissimo, e la famiglia di Lia venne piano piano emarginata.
Gli
anni passarono, la società cambiò: oltre che a gridare per la città,
ora lo si faceva anche attraverso dispositivi portatili dove ognuno
poteva gridare tutti i suoi pensieri. Ma nonostante questo, Lia crebbe
senza emettere ancora nessun grido. Seppur al liceo, i genitori
continuarono a partecipare agli stessi colloqui delle scuole primarie: i
professori li convocavano per sottolineare i comportamenti fuori dalla
norma della figlia, ai quali però ormai i genitori erano ben avvezzi, e
stanchi di sentirsi ripetere le stesse cose, smisero di parteciparvi. I
diciotto anni della figlia erano ormai vicini ed essi perdettero ogni
speranza per la competizione.
I genitori degli altri ragazzi smisero di invitarli a cene e festeggiamenti e così si chiusero in loro stessi, sprofondando nel silenzio. La figlia ne fu fortemente avvilita e rattristata: per lei il non saper gridare non era mai stato un problema, aveva sempre privilegiato i luoghi più appartati, lontani dalle urla, ma che portavano con sé altri suoni molto più piacevoli, dal canto degli uccellini, al fruscio del vento tra le foglie, ai piccoli passi degli animali nei sentieri poco battuti. Le piaceva ascoltare ciò che i professori avevano da dire e preferiva non urlare il proprio punto di vista dal banco, anche se questo la metteva in cattiva luce. Partecipava con piacere alle uscite tra i compagni ma le abbandonava non appena i decibel si facevano un po’ più alti. Non aveva interesse alla famigerata competizione, fino a quando non vide i propri genitori crollare: fu allora che decise di fare di tutto per emettere il grido più forte della città. Si allenò per giorni e giorni, ormai l’inizio della competizione era alle porte, ma dalla sua bocca non uscivano che piccoli rantoli, facilmente superabili da un bimbo appena nato. Partecipare avrebbe significato umiliarsi, emarginare ancora di più i genitori, quindi avvilita, si ritirò dalla gara.
Decise comunque di andare a vedere la competizione, intenzionata a studiare una a una le tecniche dei partecipanti. La gara fu una delle più belle mai viste da molti anni: adulti e bambini dettero in meglio di sé, un giudice svenne e un altro fu costretto a tenere i tappi per una settimana. Anche se nessuno superò il record, tutti furono entusiasti di quell’edizione. Tutti a parte Lia. La ragazza, contrariamente agli altri, ne uscì profondamente turbata. Era stanca, stanca di quel piccolo paese dove non si faceva altro che gridare, che dire la propria senza mai ascoltare gli altri, che additava chi non era conforme alla norma. In tutte quelle grida, lei non aveva visto la grandezza performativa idolatrata dalla sua comunità, ma solo una forte debolezza. Le persone si nascondevano dietro quelle grida. Moltissimi tra i suoi coetanei ma anche tra chi l’aveva preceduta avevano dedicato tutta la propria esistenza per quel solo unico obiettivo,come automi, senza mai indagare sé stessi, senza mai trovare il tempo per ascoltarsi e ascoltare il mondo attorno a sé.
I genitori di Lia si erano chiusi alla società come punizione per non
essere riusciti a stare al passo con quello che veniva chiesto loro, ma
la verità era che era sempre stata la società ad essere chiusa in sé.
Lia si accorse in quel momento di aver vissuto tutta la vita circondata
da uomini-macchina, accecati da un solo obiettivo: essere più forti
degli altri. Tutto questo aveva rovinato la sua famiglia e per la prima
volta fu assalita da una rabbia così violenta che di getto urlò, urlò
per vendicare i torti subiti, urlò contro una società che aveva cercato
di cambiarla fin dalla nascita, urlò per cercare di liberarsi dalle
catene che le avevano imposto.
Non appena ebbe urlato fu presa da una nausea violentissima: alla fine si era piegata a fare quello che avevano sempre voluto da lei, e per vergogna decise di lasciare quel paese per sempre. Raggiunse casa sua tutto d’un fiato per proporre il suo progetto ai genitori, ma poi Lia si fermò e capì: lei aveva sempre potuto gridare, ma non l’aveva mai voluto, perché l’importante non è saper gridare più forte, ma sapere quando è giusto farlo. Decise allora di rimanere e di andare ad ascoltare cosa si nascondesse dietro le grida di ciascun abitante.
Fu così che scoprì uomini e donne che si erano persi, che erano stanchi, altri incerti, vulnerabili, con molte insicurezze, tutte celate sotto le grida. Lia però trovò una cura per tutti: a turno, lei e i genitori si recavano di casa in casa e tra conversazioni più o meno a bassa voce, ogni cittadino riuscì per la prima volta ad ascoltarsi e scoprirsi e piano piano si andò a creare un senso di collettività mai visto prima, che superò di gran lunga lo spirito di competizione che aveva caratterizzato i cittadini. La gara delle grida venne abolita in favore di un’altra, dove ognuno poteva mostrare le proprie, diverse abilità. La statua del piccolo Dagri fu sostituita con una placca, contenente una frase amata da Lia:
‘’Innalza le tue parole, non la tua voce, è la pioggia che fa crescere i fiori, non la tempesta’’
Citazione dal film ”Sotto il burqa ” ( N.Twomey, 2017 )
Mael Bertotto
Originariamente pubblicato su Corde Vocali Magazine
(https://cordevocalimagazine.wordpress.com/2022/11/15/a-bassa-voce/)
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